sabato, settembre 30, 2006

Zuelli appassionato e sereno

Ultimo concerto con la Toscanini, a Parma, Conservatorio Arrigo Boito (il giorno prima eravamo a Salsomaggiore). Il camerino è in realtà un'aula con un pianoforte verticale, un clavinova, il classico colore dell'intonaco delle aule di Conservatorio (né bianco, né giallo, né grigio: un ircocervo irripetibile e stupefacente) dove si sono depositati segni arcani: la foto di un'orchestra brasilera in tournée, un orologio a muro sublime, degno dei quadranti liquefatti di Dalì (chi mai, un giorno, l'avrà concepito? e dov'è ora costui? il genio risucchiato dal tempo, dalle operose istorie...) ma anche della Cecoslovacchia anni Settanta, una foto del Maestro Zuelli incorniciata (risale al '29), con dedica al Conservatorio da lui diretto "con passione d'artista e serenità di funzionario".
Zuelli ha la barba severa del didatta, ma gli occhi segnati dalle rughe sono buoni, mansueti, indulgenti. Ebbe vita difficile e stenta, crebbe fra la strada e l'orfanatrofio, vinse il Premio Sonzogno e scrisse opere, poemi sinfonici, Lieder. Morì vecchissimo, in solitudine e cieco.
Lo guardo con affetto e penso allo strano destino di questa nostra arte, la più caduca, la più legata ai capricci della sorte. Ascolterò mai una nota del Maestro Zuelli? Per ora lo fotografo col telefonino (insieme all'orologio, of course): nel riflesso del vetro ecco il Maestro Albanese insieme con me, intenti allo scatto (il cosiddetto camerino è condiviso). Buon concerto, nonostante l'acustica un po' troppo generosa: forse il migliore dei tre.

lunedì, settembre 25, 2006

Con Giuseppe Albanese a Piacenza

Ieri mattina a Cremona: la luce compatta e azzurra del cielo settembrino, la pietra rosa dei vecchi palazzi, il suono dei violini da malchiuse finestre, i miei passi sull'acciottolato mentre vado al Teatro Ponchielli per la prima prova di Trovatore. Pochissima gente cammina, qualcuno in bicicletta. Gli alberi ancora carichi di foglie rosse e ocra. La musica del Trovatore non può scaturire da sorgente diversa che da queste mura stagionate e craquelées, che dal porfido entro le cui commessure spuntano mille erbe capricciose: la musica è nell'aria, nelle ombre, nei porticati, ma anche nella parlata un po' larga, nei sapori, nei saloni scintillanti del teatro e, due passi più in là, nelle botteghe feriali. Quando si fa musica italiana nei teatri americani tutta questa armonia è sfaldata, la si deve recuperare a posteriori, o, in senso latino, fingere. La solitudine del mattino, l'afrore del caffé, l'aria fresca sulle gote appena rase sono una promesse de bonheur, un'avvisaglia di suoni e atmosfere verdiane, il prodromo dell'universo notturno, fiammeggiante e pietoso del Trovatore.

Ci sono tutti i cantanti, tranne il baritono. Rivedo Oksana Dyka con la quale avevo preparato Leonora a Kiev, in agosto. Non ha scordato nulla ed anzi ha approfondito lo stile. Di Francesco Hong, il primo Manrico, sapevo avesse un "do" eccezionale, ma ancora più stupefacente è la duttilità, la morbidezza, la capacità di accettare e realizzare tutti gl'infiniti segnali della natura introversa (così pre-Don Carlo!) di quel ragazzo "deserto sulla terra": e cioè i pianissimo, gli espressivo, i mezzavoce, i cantabile, il legato.

La sera a Piacenza. Concerto con la Toscanini, al bellissimo Municipale, una gioielliera del primo Ottocento. Acustica eccellente, che permette molti giochi dinamici anche non immaginati in prova. Giuseppe Albanese, che ha la parte solistica nel Secondo Concerto di Shostakovich, è un virtuoso formidabile ma sfoggia anche il gusto del suono, la delibazione di quella melodia semplice e dolorosa che percorre e innerva la Sarabanda del secondo tempo. Ha un grandissimo successo, e fa un magnifico Scriabin come bis. Mi piace così tanto che mi siedo sul podio e resto in mezzo all'orchestra ad ascoltarlo (mai fatto prima). Torno a Milano in macchina nella notte (la pioggia aiuta a star sveglio) con l'ossessione del 7/8 di Shostakovich nella testa. Dopo i concerti non dormo mai prima delle 6 o 7 del mattino, ma dovrò alzarmi presto per le prove di Trovatore al Dal Verme. Due capitoli della Storia della mia vita di Casanova (il mio livre de chevet da due settimane), e mi addormento.

venerdì, settembre 22, 2006

Giulini e Il Trovatore


Ascolto Il Trovatore diretto da Giulini (inizierò le prove dopodomani a Cremona). Conoscevo quello in studio con Domingo, una ballata romantica di infinita fantasia e nobiltà, il vero Trovatore notturno e incantato, a differenza di altri Trovatori più recenti, annunciati "lunari" e in realtà diretti e suonati alla garibaldina. Ma adesso sento Il Trovatore dal vivo, Covent Garden 1964, con un buon cast (Prevedi, Jones, Simionato, Glossop, Rouleau). Registrato un po' fortunosamente, si può scaricare in mp3 a questi link:


Questo Trovatore ribalta tantissimi luoghi comuni su Giulini. E' uno dei più gagliardi e scatenati che abbia mai sentito. Non una frase volgare, non un effetto gratuito (e ce ne sono, di questi e di quelli, persino nelle stupende versioni di Karajan): ma teatralità quasi violenta, estroversa, virile, battagliera. Alcuni tempi sono velocissimi ("Deh rallentate o barbari" è al limite della follia, stanno insieme per miracolo), ma sono soprattutto i rapporti fra i diversi stacchi a generare lo scatto, l'impeto. Per esempio Giulini prepara "Di quella pira" stringendo l'introduzione e accelerando in modo frenetico l'ultima pagina prima della cabaletta: l'effetto è vertiginoso, e "Di quella pira" guadagna moltissimo a essere staccata in modo non forsennato ma lievemente ritenuto, in modo da dare peso ed energia all'accompagnamento. D'altra parte tutto ciò non fa che realizzare le prescrizioni di Verdi (metronomo = 100 la semiminima!), cosa che non fanno direttori che si presentano come custodi del Verbo originale. Secondo loro, infatti, quel che scrive Verdi non conta nulla, e si può staccare la cabaletta a 144 la semiminima (con un bell'accompagnamento leggero leggero): l'effetto avvicina la pagina a Begin The Beguine di Cole Porter, che tutti adoriamo ma che non immaginiamo cantata da Manrico.

Insomma, Giulini si fa forte delle indicazioni di Verdi e realizza in modo coerente il passo narrativo e drammatico (nella più narrativa fra tutte le opere di Verdi: dall'inizio alla fine non si fa altro che rammemorare un passato oscuro e incombente). Il "come" poi lo faccia attiene al suo prestigio e alla sua grandezza, cui una volta di più ci si inchina.

A proposito di fedeltà alle indicazioni di Verdi, uno dei direttori che ho trovato più fedele è Sinopoli (chi l'avrebbe detto?) che nel suo Trovatore di Monaco (dal vivo, Cd Orfeo) è di una discrezione e di un'umiltà sorprendenti. Naturalmente rispettare le indicazioni dinamiche (per fare solo un esempio) porta a ridurre gli effettacci volgari di tanta tradizione, e ad avvicinare la commozione per quest'opera sfumatissima, atmosferica, scritta come dipingevano i maestri delle infinite velature.

giovedì, settembre 21, 2006

Si riparte da Parma

Ieri, prima prova della nuova stagione. A Parma, con l'Orchestra Toscanini: programma composito, Mozart: Sinfonia n. 39, Shostakovich: Secondo Concerto per pianoforte, Castiglioni: Intermezzo; Schumann: Ouverture da 'Genoveva'. Non l'ho scelto io ma mi piace e, mi pare, funziona per un certo equilibrio fra i pezzi. Di Castiglioni, che io sappia, non esistono registrazioni: l'ho studiato al pianoforte e mi ha fatto l'impressione di un Klavierstueck alla primo Schoenberg. Con l'orchestra è diverso: la scrittura frammentata diventa più dura, paradossalmente è più facile legare gli elementi al pianoforte, che pure non sostiene i suoni. Alcuni, in orchestra, mi dicono che è un pezzo interessante; alla più parte non piace. Troppi vuoti, troppe zone d'aria. Poco suono. Eppure dovrebbe essere questa la sua ragione poetica (l'indicazione di tempo è "So zart wie moeglich"). Spero di ottenere più colore alla seconda prova, ma è un pezzo difficile, dove i silenzi dovrebbero parlare come i suoni.

Con gli altri pezzi tutti sono più coinvolti. In Schumann tengo un tempo più veloce che in alcune registrazioni che ho sentito (Kubelik, Masur): dovrebbe emergere una certa dimensione nevrotica, con scatti improvvisi, illuminazioni, barbagli di suono. Eppure, con tutta la nevrosi di Schumann, la cosa più bella è la costruzione di tutto il brano su due cellule (la prima è in do minore nell'introduzione, e sfolgora in do maggiore alla chiusa), con una coerenza, una solidità, una continuità formidabile. Non so se sia mai stata commentata l'orchestrazione di questo brano, ma alla prima lettura con l'orchestra mi sembra suoni benissimo, senza bisogno di accorgimenti e aggiustamenti: equilibri perfetti, dinamiche soppesate e "scritte" in modo efficace. Due passi difficili per gli archi.

Ciò che mi diverte di più è il Concerto di Shostakovich, perché nel secondo movimento (che per l'orchestra è facile e che al pianista domanda soprattutto bellezza di suono) faccio suonare l'orchestra da sola e suono io la parte pianistica (studiata al momento, più o meno, ma non è pericolosa). Questo Shostakovich che rifà Rachmaninov o gli sdilinquimenti dei film è curiosissimo. E' tutto un "come se" (quel che Adorno dice della Quarta di Mahler), tutta un'antifrasi, o forse no, si è rilassato un momento ed è uscito quel dono melodico che era formidabile nel giovane Shostakovich (Prima Sinfonia, movimento lento). Di tutti i pezzi del programma si può dire che rappresentano la parte stilisticamente più inafferrabile di ciascun autore (certo lo si può dire della n. 39 di Mozart, tremendamente difficile).
(La sera, indolenzimento alla spalla destra, come sempre quando riprendo a lavorare dopo qualche settimana. E' un dolore che conosco, e gli sorrido al momento di coricarmi).